IL LAVORO COME PROBLEMA FILOSOFICO   
da Aristotele ad Adam Smith
A cura di: Virgilio Cesarone
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Lezione 3

Max Scheler. Lavoro ed etica.

Max Scheler (1874-1928), filosofo vulcanico e dalla vita, non solo filosofica, piena di rivolgimenti, studiò filosofia e medicina a Jena (presso Eucken e Liebmann). Ma gli incontri che lo formarono definitamente furono quelli con Husserl, che lo presentò a T. Lipps. Scheler si considerò, dal momento dell'incontro con Husserl nel 1901 fino alla prima guerra mondiale, un fenomenologo. La Fenomenologia però veniva compresa da lui in un senso più ampio rispetto a quanto il maestro Husserl andava insegnando in quegli anni, vale a dire come una filosofia che cerca il suo fondamento in una descrizione di ciò che si dà nell'esperienza. Tuttavia la sua appartenenza al movimento fenomenologico può dirsi conclusa con la pubblicazione delle sue opere ultime, quando la sua filosofia procedette oltre la Fenomenologia per sviluppare una filosofia attenta alla dimensione religiosa.

Sotto l'influsso della filosofia della vita (Lebensphilosophie) Scheler portò avanti la tesi che i fondamenti della vita non risiedono nello spirito, ma invece in un ambito costituito da spinte irrazionali e da sentimenti. Tuttavia si discostò senza dubbio dalla filosofia della vita quando rifiutò di considerare la parte spirituale dell'uomo come un semplice prodotto di pulsioni e sentimenti. Lo spirito ha per Scheler una autonoma modalità d'essere, che fa sì che l'uomo possa essere una persona e si discosti così dall'animale. Questa attribuzione di autonomia allo spirito dona inoltre alla persona-uomo la possibilità di acquisire una conoscenza delle essenze e di stabilire una gerarchia dei valori, proveniente dalla vita obiettivamente vissuta. È facile intuire come questi spunti furono di grande stimolo e novità per la filosofia di inizio Novecento, soprattutto per una nuovo approccio ai temi dell'Antropologia filosofica.

Il testo che qui ci accingiamo ad esaminare fu scritto da Scheler nel 1899, quindi nel periodo precedente l'incontro con la Fenomenologia, per questo il metodo usato è definito dalla curatrice pre-fenomenologico. In realtà sarebbe meglio riconoscere al filosofo l'uso di un metodo classico della filosofia, cioè quello linguistico (basti pensare alla Metafisica di Aristotele). Scheler infatti cerca innanzitutto di mettere a fuoco il ventaglio di significati che la parola porta con sé, a cui addiziona un'analisi della vita sociale in cui si dispiega l'attività lavorativa dell'uomo. Il risultato è un'analisi psicolinguistica, che, pur nei limiti sottolineati da Manfred Riedel, e che vedremo in seguito, rimane di importanza rilevante perché fu una delle prime a vedere la difficoltà in cui si dibatteva una filosofia del lavoro, che ritenesse questo come unico momento formativo della coscienza della persona.

Il saggio si apre con una constatazione: la filosofia ha smesso di pensare le cose ultime, la crisi della metafisica è palese ed evidente. Ma questa situazione di crisi si riverbera inevitabilmente in campo etico. La valutazione morale infatti, l'atto precedente la decisione e quindi l'azione, non si rivolge più verso una vita elevata e nobile (si pensi alle aspirazioni platoniche, o anche alla purezza del dovere kantiano), "quanto ad un lento e faticoso avvio di condizioni di vita moralmente desiderabili" (M. Scheler, Lavoro ed etica - Saggio di Filosofia pratica, a cura di D. Verducci, Città Nuova, 1997, p.53).

Se l'uomo della metafisica era l'eroe, capace di portare avanti la cultura e la civiltà, come l'Ulisse dantesco che decide di varcare le colonne d'Ercole per spingere in avanti i limiti dell'umano sapere, ora sembra che tutto sia già preformato e predeterminato. Manca nelle masse la creatività per darsi scopi diversi rispetto a quelli già fissati. La vita scorre lungo binari stabiliti da un ordinamento proprio della situazione storico-sociale. Scheler commenta laconico: "Ai singoli individui parve che in quegli ordinamenti i fini e gli scopi fossero diventati oggettivi, dati e dunque destinati esclusivamente ad essere riconosciuti, essendo anche nella loro qualità di scopi immutabili e non ulteriormente determinabili" (Ibidem).

In questa situazione di stallo, in cui tutto sembrava già determinato e volto solo alla ripetizione di quanto precedentemente conseguito, quale terreno rimaneva alla valutazione morale? Scheler afferma che il "che cosa" è del tutto scomparso, vige esclusivamente il problema del "come". Questo significa che nel momento in cui viene meno la domanda su che cosa si deve fare, perché questa domanda non ha più senso, perché il contenuto dell'azione morale lo si trova già bello e pronto, in questo momento ci si pone il problema del come portare a compimento un'azione di cui si conoscono già direzione e scopo.

Tale trasformazione è dovuta fondamentalmente a quella che Scheler chiama la "potenza della tecnica materiale". La tecnica infatti ha rivoluzionato i mezzi di lavorazione, stravolgendo nel profondo l'attività economica. Nella trasformazione del mondo da parte della tecnica si manifesta la capacità del mezzo di porre fini, una capacità fino ad allora sconosciuta. Qui Scheler si riferisce al capovolgimento della tradizionale gerarchia secondo la quale il mezzo in sé non pone fini, ma appunto è determinato nella sua direzione da una precedente attività, quella del sapere pratico. Lo sviluppo della tecnica ha portato a stravolgere i rapporti gerarchici tra l'attività pratica e quella poietica.

Ora tutto questo appare a Scheler ampiamente dimostrato dalla storia economica. Ma quando è iniziato tutto ciò? È sorprendente che Scheler veda nell'alto medioevo il momento di avvio di questa trasformazione. La formazione di gruppi professionali determinò una autonomia inizialmente solo di lavoro, che poi si riverberò in autonomia di fini, indipendenti da un gruppo ad un altro. Tutto questo a partire dalla divisione del lavoro, che da principio era solo tecnica, ma che poi divenne etica e sociale. "Ora - afferma il filosofo tedesco - vedemmo il dissolvimento di grandi sistemi di fini ad opera dei mezzi in essi stessi incorporati" (Ibidem). I mezzi non sono altro che la tecnica usata nell'ambito produttivo, che diviene essa stessa capace di porre i fini morali. Da questa prospettiva tutto ciò che aveva preceduto tale situazione venne visto come un momento preparatorio - l'idea di progresso! - per cui le figura altamente morali del passato più che mostrare la loro serietà e tragicità, apparivano in una veste di debolezza.

Naturalmente tali idee guida relative alla dissoluzione dei sistemi dei fini sono iniziate ad espandersi in campo economico, ma hanno preso piede in tutti gli ambiti. Ma questo peso economico è divenuto per Scheler sempre più preponderante, così da attirare su di sé tutti gi altri ambiti. Tutta l'analisi delle attività dell'uomo sembra sottostare a nessi economici, cosa che il filosofo non nega, ma contemporaneamente si è abbandonato il domandare riguardante gli altri aspetti della vita, che nei secoli passati veniva intrapreso.

Per questo motivo Scheler parla di "tonalità generale della vita". L'espressione vuole mostrare come in realtà molto spesso ciò che conta non è il giudizio o le idee che contano, vale a dire una consapevole e ragionata presa di posizione, quanto la "colorazione" particolare che la vita, nel divenire storico dell'uomo e della società, dona agli eventi. Tale tema sappiamo diverrà uno dei cardini attorno al quale ruoterà la teoria scheleriana della persona.

Tutto quanto è stato detto vale ad esempio nel momento in cui si vede come nell'Illuminismo veniva giudicato il lascito della tradizione e della religione: un inganno. Tutti gli sforzi e le riflessioni che intere generazioni avevano portato avanti vengono ritenute una sorta di autoinganno, nei confronti del quale gli uomini hanno perso di vista la loro specifica funzione, quella di essere un uomo economico, vale a dire: l'unica e giusta dimensione dell'umano è quella economica, tutto ruota intorno ad essa. Tutto il passato divenne favola, una realtà quasi fantastica, dove la realtà sfuggiva a tutti coloro che si sforzavano di riflettere sulle condizioni di vita dell'uomo.

Il culmine di tutto questo movimento di pensiero fu, secondo Scheler, la teoria di Marx con la sua concezione materialistica della storia. Sia il Manifesto dei comunisti che Il Capitale forniscono questa chiave di lettura dell'umana vita, ma soprattutto quest'ultima opera ha cercato di elevare a posizione centrale l'economia politica all'interno delle scienze. Dal momento che l'esistenza economica diviene l'essenza dell'umano, il motore di tutte le attività dell'uomo, di conseguenza la scienza che analizza i nessi economici deve avere per forza una preminenza rispetto a tutte le altre scienze, non può venire definita una disciplina accessoria, ma deve essere considerata l'unica che coglie veramente il reale. In questo modo tutte le altre analisi sulla storia, le religioni e la politica, devono in un certo senso accordarsi a quella che diviene una vera e propria metafisica, una filosofia prima.

Ora Scheler, pur non avendo come fine quello di criticare la teoria marxiana, non si esime tuttavia dal formalizzare alcuni rilievi critici. Innanzitutto questa filosofia, che dal punto di vista contenutistico si pone così diversa e distinta rispetto alla tradizione filosofica, ha attinto in realtà, secondo il filosofo tedesco, a piene mani sul piano formale dall'Idealismo tedesco. Quindi Scheler critica Marx come Hegel sotto la medesima prospettiva, quella di aver assolutizzato una intuizione, che in sé può anche venire ritenuta giusta e giustificata. Per cui "la miseria e la grandezza dell'epoca presente appaiono come la grandezza e la miseria di tutto il mondo" (Ivi, pp. 57-58). In ciò consiste la tracotanza del pensiero tanto della Scienza della logica di Hegel, quanto de Il Capitale di Marx. Una intuizione viene a dilatarsi ed ad assumere una posizione che rende ragione di tutti gli avvenimenti del mondo, superando tutte le barriere.

La teoria materialistica della storia ha senza dubbio ragione da un punto di vista, secondo Scheler, ma solo per questo. "Essa è effettivamente - scrive il filosofo - una riproduzione spirituale della necessità economica, e doveva trovare un terreno fertile in uomini il cui sguardo era stato potentemente orientato verso l'aspetto economico della vita proprio da questa necessità" (Ivi, p.58). È sicuramente vero che di fronte ad un affamato risulta difficile poter far credere che esiste anche una "fame" spirituale, che implica sofferenze. Ma questa presa di coscienza di un problema determinato e circoscritto ad un periodo storico ed ad una situazione sociale non può portare necessariamente ad una filosofia che, in base a tali principi, interpreti la legge del divenire storico del mondo intero.

Ma questa nuova visione dei problemi storici e sociali portò ad un evento senza dubbio positivo, l'avvicinamento di due discipline scientifiche che sembravano destinate a rimanere separate da una frattura apparentemente insanabile. Qui Scheler enumera vari studiosi che non ci interessa ricordare; quello che è importante è la sua affermazione secondo la quale la filosofia aveva perso ogni legame con l'economia politica, soprattutto quella tedesca, ed una certa opera di mediazione tra le due discipline sembra essere stata portata avanti solo dalla sociologia.

Quindi Scheler inizia effettivamente la propria riflessione dando seguito alle premesse tanto in voga allora: partire con l'esame ricerca filosofico rivolgendosi innanzitutto alle principali categorie economiche, mettendo in evidenza però "il contenuto logico-psicologico" e contemporaneamente mostrando "le posizioni assunte nelle diverse visioni del mondo [Weltanschauungen] storicamente disponibili. Scheler ricorda coloro che lo hanno preceduto in questo cammino Alexius Meinong (un allievo di Brentano, il quale con i suoi studi sull'intenzionalità esercitò un influsso importante su Edmund Husserl e la prima scuola fenomenologica), e Christian von Ehrenfels. Entrambi con la loro teoria del valore hanno aperto la strada ad un nuovo modo di intendere il problema.


Theorèin - Giugno 2005